L’Italia e la battaglia contro l’Alzheimer: un milione di pazienti, nuove speranze dai farmaci monoclonali

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  La demenza, e in particolare l'Alzheimer, rappresenta una sfida crescente per il sistema sanitario italiano e per le famiglie. Secondo le stime più recenti, nel nostro Paese più di un milione di persone è affetto da demenza, di cui tra 600.000 e 700.000 con diagnosi di Alzheimer. Si tratta di numeri che raccontano l’impatto di una patologia che, oltre a rubare la memoria, compromette l’autonomia e la dignità delle persone. Ma cosa si sta facendo per fronteggiare questa emergenza? E quali sono le prospettive per chi è colpito da questa condizione? Come spiega la professoressa Laura Bonanni, responsabile dell'Unità Operativa Complessa di Neurologia dell’Ospedale di Vasto, è importante che i cittadini e le famiglie imparino a riconoscere i primi segnali di allarme.

  La malattia spesso esordisce in modo subdolo, con episodi di dimenticanza che potrebbero apparire trascurabili. Tuttavia, la perdita della memoria a breve termine – ad esempio, dimenticare cosa si è fatto poche ore prima o dove si sono lasciati oggetti di uso quotidiano – può essere il primo indizio di un deterioramento cognitivo. Altri segnali includono la difficoltà a trovare le parole giuste, confusione nei luoghi non abituali e difficoltà a ricordare eventi recenti, anche banali. La diagnosi precoce è fondamentale per l’efficacia dei nuovi trattamenti in sviluppo, in particolare per i farmaci “disease modifying” come gli anticorpi monoclonali. Questi farmaci, oggi in fase di sperimentazione, hanno come obiettivo non solo di alleviare i sintomi, ma di rallentare la progressione della malattia nei pazienti diagnosticati nelle fasi iniziali. L'Alzheimer è una malattia neurodegenerativa progressiva, caratterizzata dall’accumulo nel cervello di una proteina chiamata amiloide. La deposizione di questa proteina avvia un processo infiammatorio che porta alla distruzione neuronale. Gli anticorpi monoclonali, farmaci che agiscono specificamente sulla proteina amiloide, stanno dando risultati promettenti: questi anticorpi “ripuliscono” il cervello dalle placche di amiloide, rallentando l’evoluzione della malattia e conservando più a lungo le funzioni cognitive. Le speranze riposte in queste terapie sono elevate, ma ci sono delle limitazioni. La professoressa Bonanni sottolinea che questi farmaci sono efficaci solo nelle fasi molto precoci della malattia, motivo per cui la diagnosi tempestiva è cruciale. Purtroppo, l’Alzheimer viene spesso diagnosticato solo in stadi avanzati, quando i trattamenti possono fare ben poco per modificare l’esito della patologia. La ricerca sta sviluppando strumenti diagnostici sempre più avanzati, tra cui i biomarcatori specifici e le tecniche di imaging, per riconoscere i segni della malattia anni prima che i sintomi diventino evidenti. 

  In Italia esistono circa 500 centri dedicati al trattamento della demenza e ai disturbi cognitivi, ma la distribuzione e il livello di specializzazione variano da regione a regione. Alcuni centri sono in grado di eseguire diagnosi avanzate, mentre altri si concentrano sull’intercettazione e sul monitoraggio clinico dei pazienti. La professoressa Annachiara Cagnin, del Centro disturbi cognitivi e demenze presso l’Azienda Ospedaliera di Padova, sottolinea la necessità di integrare questi centri in una rete nazionale che permetta un flusso più efficiente di informazioni e di pazienti. La condivisione di risorse e competenze consentirebbe ai pazienti di accedere più rapidamente alle terapie innovative e di ricevere assistenza continua e personalizzata. Questa rete potrebbe anche facilitare la distribuzione dei nuovi farmaci, come gli anticorpi monoclonali, assicurando che tutti i pazienti idonei possano accedervi indipendentemente dal luogo in cui risiedono. I centri territoriali svolgerebbero un ruolo fondamentale non solo nella diagnosi, ma anche nell’assistenza e nel follow-up dei pazienti, riducendo il carico sui centri specializzati e permettendo una gestione più capillare della malattia. Sebbene i fattori genetici siano rilevanti, la familiarità con la malattia non è l’unico fattore di rischio. Studi recenti evidenziano che mantenere uno stile di vita sano può contribuire a prevenire o ritardare l’insorgenza della demenza. Un’attività fisica regolare, un’alimentazione equilibrata, la gestione dello stress e un’adeguata stimolazione mentale sono tutti fattori che possono “rinforzare” il cervello e aumentarne la capacità di resistere ai processi degenerativi. Secondo la professoressa Cagnin, intervenire su fattori modificabili come la salute cardiovascolare, il controllo del peso e l’abitudine al fumo può avere un effetto protettivo sul cervello. La prevenzione deve iniziare in età adulta, poiché il processo neurodegenerativo può iniziare molto prima della comparsa dei sintomi.

  La battaglia contro l’Alzheimer richiede uno sforzo collettivo. Non basta sviluppare nuovi farmaci: è fondamentale creare una rete di supporto che accompagni il paziente e la sua famiglia, garantendo un accesso equo alle cure e un’assistenza continua. In questa sfida, l’Italia deve investire in ricerca, innovazione e formazione dei professionisti sanitari, rafforzando i centri di diagnosi precoce e migliorando la comunicazione tra le strutture sanitarie. L’Alzheimer non è solo una malattia della memoria: è una patologia che priva le persone della loro identità e autonomia, mettendo a dura prova le famiglie. Il nostro impegno deve essere rivolto non solo alla cura, ma alla dignità delle persone affette da questa malattia. E per affrontare al meglio questo percorso, è necessaria una consapevolezza diffusa, una politica sanitaria lungimirante e una rete di sostegno che non lasci nessuno indietro.