La domenica di Pasqua in Sardegna non è semplicemente una celebrazione liturgica, ma un palcoscenico dove storia, fede e identità si intrecciano in un rito collettivo che travalica i confini del sacro. Tra i vicoli acciottolati dei borghi medievali e le piazze assolate delle città costiere, l’isola rivive ogni anno un dramma teologico che affonda le radici nel Seicento spagnolo, ma che custodisce echi di culti ancestrali. L’incontro tra il Cristo risorto e la Madonna, cuore pulsante dei festeggiamenti, diventa metafora di un popolo che attraverso i secoli ha fatto della contaminazione culturale la sua cifra identitaria.
L’impronta della dominazione spagnola (1479-1714) plasma ancora oggi i riti pasquali sardi, come dimostrano le vesti nere delle confraternite e l’uso dei pasos, i gruppi scultorei processionali di origine iberica. Le Arciconfraternite, istituite nel XVI secolo come braccio laico della Chiesa controriformista, diventano custodi di una liturgia popolare che mescola devozione e teatro. A Cagliari, dove il potere vicereale mantenne il suo fulcro, la processione del Santu Sepulcru unisce statue lignee di scuola napoletana a manufatti catalani, testimoniando la complessa geografia culturale del Mediterraneo spagnolo.
Il termine Sa Pasca Manna, con cui nel Sud dell’isola si designa la Pasqua, tradisce l’influenza linguistica iberica, mentre la struttura stessa dei riti – dalla processione delle Palme alla deposizione del Cristo – ricalca modelli liturgici introdotti dai frati catalani. Nonostante ciò, come osservano gli storici, ogni comunità ha reinterpretato questi elementi in chiave autoctona, innestandoli su un sostrato rituale preesistente.
Il momento culminante della domenica pasquale è S’Incontru, rappresentazione dell’incontro tra il Cristo risorto e la Madonna che, secondo la tradizione sarda, avviene fuori dalle mura di Gerusalemme. Due cortei distinti – uno maschile con la statua del Redentore e uno femminile con quella della Vergine – percorrono vie separate per convergere in uno spazio simbolico, spesso la piazza principale del paese. A Santa Margherita di Pula, al momento del ricongiungimento, il velo nero della Madonna viene sollevato rivelando un manto azzurro, mentre a Santu Lussurgiu il Regina Coeli risuona come annuncio dell’Assunzione.
Quando le statue giungono a pochi metri di distanza, i portantini eseguono tre inchini profondi, un gesto che riecheggia i cerimoniali di corte spagnoli. A ogni inchino corrisponde una salva di fucileria, il cui rombo non è semplice folclore: gli spari, un tempo eseguiti con archibugi, simboleggiano sia lo squarcio del velo del Tempio descritto nei Vangeli, sia l’esorcismo delle forze maligne secondo credenze popolari. A Buddusò, dove un murale contemporaneo immortalà il rito, il fragore delle detonazioni si mescola al lancio di caramelle e monete, trasformando la devozione in festa comunitaria.
In alcune località come Iglesias e Siliqua, la processione si arricchisce di personaggi biblici: un bambino vestito da San Giovanni e una bambina nei panni di Maria Maddalena affiancano i simulacri, riproponendo la scena evangelica del sepolcro vuoto. Questa teatralizzazione, estranea ai testi sacri, dimostra come il rito assorba e rielabori elementi narrativi per coinvolgere emotivamente i fedeli.
Le vesti delle statue diventano codice visivo: la Madonna avvolta in un manto nero durante i giorni del lutto viene rivestita d’azzurro o di bianco durante S’Incontru, mentre il Cristo passa dalla corona di spine a uno sfarzoso stendardo di resurrezione. A Cagliari, la Madonna Gloriosa sfoggia un abito candido ricamato in oro, simbolo della sua assunzione in cielo accanto al Figlio. Questi cambi d’abito, eseguiti in segreto dalle devote, trasformano la vestizione in un atto liturgico parallelo.
Nell’ex avamposto catalano, il Desclavament del Venerdì Santo anticipa i festeggiamenti: sacerdoti in paramenti settecenteschi salgono su un palco per rimuovere i chiodi dal Cristo snodabile, operazione eseguita con martelli d’argento e scale cerimoniali. La domenica, l’Encontre si svolge in un bilinguismo rituale: le preghiere in algherese (variante del catalano) si alternano al latino, mentre le confraternite indossano i caparutxes, cappucci a punta di derivazione peninsulare. Nel borgo dominato dal Castello Doria, il Lunissanti del Lunedì Santo prepara il terreno alla Pasqua: i confratelli, illuminati da fiaccole, intonano il Miserere in un latino quattrocentesco durante la processione verso l’abbazia di Tergu. Qui, la ricostruzione dell’Ultima Cena con pani azzimi modellati a forma di strumenti della Passione (tenaglie, chiodi, scala) fonde devozione e arte culinaria. Nel Sud dell’isola, i sette Misterius – gruppi scultorei della Passione – vengono portati in altrettante chiese prima di confluire in piazza per S’Incontru. La processione assume i toni di una sacra rappresentazione ambulante, dove ogni statua (dal Cristo nell’Orto degli Ulivi alla Crocifissione) diventa atto di un dramma sacro che si conclude con l’abbraccio tra madre e figlio.
La tavola pasquale sarda trasforma gli ingredienti in simboli: le pardulas, dolci di ricotta avvolti in pasta filo, riproducono il sudario di Cristo. La panada, torta salata di anguille o agnello, evoca invece il sepolcro con il suo involucro di pasta. A Desulo, il coccoi pintau (pane decorato) unisce simboli solari nuragici alle iniziali IHS, sintesi gastronomica di un sincretismo millenario.
I riti della domenica di Pasqua in Sardegna rivelano un popolo che ha fatto della resistenza culturale la sua forza: davanti alle dominazioni straniere, ha assimilato forme esterne riempiendole di significati autoctoni. Quel triplice inchino tra le statue non è solo rappresentazione evangelica, ma metafora di un’isola che si piega alla storia senza spezzarsi, pronta a rialzarsi più vitale di prima. In un’epoca di globalizzazione, queste tradizioni non sono folklore in estinzione, ma pratiche vive dove una comunità continua a interrogare il proprio passato per comprendere il presente. Come scriveva Gramsci, sardo di Ales, "la tradizione è il terreno su cui cresce l’avvenire": e in nessun luogo come nella Pasqua sarda questa verità trova così vivida conferma.
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