Tra Washington e Sion: le prime radici di un’alleanza destinata a ridisegnare gli equilibri mondiali

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  Se vogliamo comprendere un’alleanza tanto longeva e dibattuta come quella fra gli Stati Uniti e Israele, che da oltre settant’anni influenza la politica del Medio Oriente e il destino di intere aree geopolitiche, dobbiamo tornare alla fine dell’Ottocento, quando ancora dello Stato di Israele non vi era traccia. A quel tempo, nelle comunità ebraiche sparse per il mondo, prende forma il Sionismo, un movimento politico che auspica la creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina. Il nome rimanda alla collina di Sion a Gerusalemme, simbolo dell’antico legame fra il popolo ebraico e la terra d’origine, ma la Palestina di allora è una regione popolata prevalentemente da arabi musulmani, con minute comunità ebraiche native, spesso meno del 5% degli abitanti. Malgrado questo evidente ostacolo, l’idea di uno Stato ebraico in Palestina trova appoggio nel Regno Unito, potenza coloniale che controlla quella terra, e nel 1917 la Dichiarazione Balfour impegna Londra a sostenere un insediamento nazionale ebraico in Palestina. 

  È a questo punto che assistiamo al primo segnale di supporto americano: il presidente Woodrow Wilson sostiene apertamente l’iniziativa britannica, seguito dal Congresso degli Stati Uniti, che nel 1922 approva una risoluzione favorevole al progetto sionista. Questo coinvolgimento è sorprendente, poiché allora gli Stati Uniti, intrisi d’isolazionismo fin dall’Ottocento, evitavano d’invischiarsi in questioni internazionali. Ma l’America degli anni Venti conta già oltre tre milioni di ebrei, una comunità che, pur numerosa, spicca soprattutto per l’influenza politica, culturale ed economica che alcuni suoi membri esercitano. Personaggi come il giurista Louis Brandeis sostengono apertamente il Sionismo, presentandolo all’opinione pubblica americana come la storia di un popolo perseguitato che cerca libertà in un lontano territorio di frontiera. Queste immagini, che riecheggiano il mito fondativo degli stessi Stati Uniti, rendono più facile al pubblico americano simpatizzare per la causa sionista. L’appoggio di Washington si traduce in investimenti per favorire gli insediamenti ebraici in Palestina, ben accolti da un elettorato sempre più sensibile. Intanto la Jewish Agency, finanziata anche grazie alle donazioni degli ebrei americani, promuove lo sviluppo industriale e l’organizzazione delle future strutture statali. La Seconda Guerra Mondiale e soprattutto l’Olocausto danno un impulso decisivo. La tragedia subita dagli ebrei in Europa rafforza l’idea che la fondazione di uno Stato ebraico sia urgente e moralmente ineludibile. Nel maggio 1948 viene proclamata la nascita dello Stato di Israele, e gli Stati Uniti lo riconoscono dopo soli undici minuti, un gesto di straordinaria rapidità.

  Siamo in piena Guerra Fredda: il mondo si divide fra l’influenza sovietica e quella americana, e ogni nuovo Stato diventa un potenziale tassello di quel grande scacchiere. Gli americani percepiscono Israele come un lembo di democrazia, quasi un riflesso dei propri ideali in una regione dominata da regimi monarchici o autoritari. Tuttavia la situazione è più complessa di quanto appaia: l’Unione Sovietica, concorrente diretta degli Stati Uniti, coltiva rapporti con Siria, Iraq ed Egitto, mentre gli americani cercano di mantenere contatti con vari paesi arabi e, parallelamente, rafforzano il legame con l’Arabia Saudita. In tale contesto, Israele appare agli occhi di Washington come una possibile risorsa ma anche un investimento incerto. Il nuovo Stato ebraico è piccolo, circondato da paesi ostili, coinvolto in tensioni continue con i palestinesi e sconfitto nel confronto economico da modelli capitalistici, avendo scelto un’economia di stampo socialista non proprio in linea con le preferenze statunitensi. Nei primi anni dopo la fondazione dello Stato di Israele, gli Stati Uniti sostengono l’alleato, ma con una certa cautela. Sì, vi sono finanziamenti, aiuti, dichiarazioni di sostegno, ma non ancora quel legame solidissimo che conosciamo oggi. La svolta decisiva arriverà più tardi, grazie a una guerra fulminea destinata a cambiare per sempre la percezione americana delle potenzialità dello Stato di Israele. 

  Nel giugno 1967, infatti, Israele si trova coinvolto in un conflitto noto come Guerra dei Sei Giorni contro Egitto, Siria e Giordania. In meno di una settimana l’esercito israeliano sconfigge tre nazioni arabe, conquista Gaza, il Sinai, la Cisgiordania, gli altipiani del Golan e anche la parte araba di Gerusalemme. Gli Stati Uniti osservano stupiti questa prova di forza: Israele non è più una fragile entità difficile da sostenere, bensì un alleato che sa difendersi e trionfare contro avversari numerosi. Questa dimostrazione di potenza militare cambierà la relazione fra i due Paesi in modo radicale. Ma per comprendere appieno gli effetti di tale mutamento, e per capire come un’alleanza nata in parte dall’affinità culturale e in parte dalle pressioni della Guerra Fredda si trasformerà in un rapporto simbiotico sul piano militare, economico e tecnologico, dobbiamo continuare il racconto, e avvicinarci agli anni delle grandi trasformazioni economiche e dell’emergere di nuove minacce globali.