"Il conservatore non è contrario alle novità perché nuove; ma non scambia l’ignoranza degli innovatori per novità." Con queste parole, Giuseppe Prezzolini definiva la sua visione critica e mai banale del conservatorismo. Parole che risuonano oggi come un monito in un’epoca in cui il dibattito pubblico spesso si riduce a slogan e semplificazioni. Parlarne significa riscoprire un pensatore che ha attraversato il Novecento italiano con uno sguardo tanto lucido quanto impietoso, sempre pronto a svelare le contraddizioni della sua epoca.
Prezzolini, nato nel 1882, è stato un intellettuale che ha saputo essere protagonista di due stagioni culturali: quella degli inizi del Novecento, quando fondò "La Voce", e quella successiva al secondo conflitto mondiale, quando, tornato in Italia dopo un lungo esilio tra Parigi e New York, si impegnò a innestare "robuste dosi di realismo" in un paese che riteneva smarrito. La sua vita e la sua opera sono un esempio di coerenza intellettuale rara, di quella capacità di essere scomodi sia per il potere che per gli oppositori, proprio perché mosso da un unico desiderio: dire la verità, anche quando faceva male.
"La Voce", nata nel 1908, non era solo una rivista, ma una vera e propria palestra per le migliori menti del tempo, un luogo di confronto che cercava di portare l’Italia a dialogare con le correnti culturali europee. Prezzolini voleva svecchiare la cultura italiana, e lo faceva senza alcun timore di rompere con il passato. In questo, egli rappresentava una figura di anarchico conservatore, capace di guardare avanti senza però rinunciare a quelle che considerava le radici profonde della cultura e della società italiana.
Se Montanelli ha raccolto l'eredità di Prezzolini, è perché ne condivideva la stessa insofferenza per i luoghi comuni e le semplificazioni. Prezzolini amava l'Italia, ma non si faceva illusioni sugli italiani. “L’Italia va avanti perché ci sono i fessi”, diceva. E continuava: “I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l’Italia sono i furbi, che non fanno nulla, spendono e se la godono.”
Un giudizio amaro, ma forse mai così attuale, che riflette la sua disillusione per una nazione in cui troppo spesso l'apparenza conta più della sostanza.
Prezzolini fu anche un grande critico delle ideologie. “L’Italiano ha un tale culto per la furbizia, che arriva persino all’ammirazione di chi se ne serve a suo danno,” scriveva. Questo atteggiamento lo rendeva impermeabile alle mode politiche del suo tempo. Se da un lato era capace di riconoscere la grandezza del liberalismo, dall’altro non esitava a criticare le derive opportunistiche della democrazia italiana, che spesso, a suo dire, si limitava a essere un gioco di potere. Ma proprio in questa capacità di andare controcorrente, si ritrova la sua grandezza. Non cercava mai di compiacere, non era interessato a creare consensi facili.
Prezzolini era un uomo che credeva nel valore della parola, e nelle sue mani la parola diventava una vera e propria arma. Sapeva che la cultura doveva essere viva, e che la funzione dell’intellettuale non è quella di rassicurare, ma di scuotere. E proprio per questo, a volte, risultava scomodo, persino agli amici più vicini. Era un uomo che credeva nella responsabilità del pensiero, nella necessità di difendere la verità, anche quando la verità è difficile da accettare.
La sua lunga vita, terminata nel 1982, è stata un percorso coerente, in cui si è sempre rifiutato di ridurre la complessità della realtà a schemi semplicistici. Ha attraversato le ideologie, le guerre, le crisi, e ha mantenuto uno spirito critico che oggi può apparire come un’eccezione. Se Prezzolini non ha fondato scuole di pensiero, ha comunque influenzato una generazione di intellettuali che hanno imparato da lui l'importanza di non abbassare mai la guardia di fronte alla superficialità.
Per questo, ricordare Prezzolini oggi significa non solo rendere omaggio a un grande uomo di cultura, ma riscoprire la necessità di un pensiero libero, che non si fa intimidire dalla pressione del conformismo. Significa tornare a quella lezione di La Voce, a quel bisogno di costruire una società in cui la cultura non sia solo un ornamento, ma uno strumento per comprendere e, se necessario, cambiare il mondo.