Memorie algheresi: La vendemmia - La varemma Parte I

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  La vendemmia ad Alghero è sempre stata un appuntamento importante nel calendario sociale della città. Sopratutto per i giovani e per quelli che ansiosi si apprestavano a diventare tali. Partecipare alla vendemmia significava lasciarsi alle spalle il lungo e dorato periodo della vita infantile e affacciarsi al corto e travagliato percorso dell’adolescenza. Scoprendo realtà fino allora sconosciute. Nei lavori agrari, la vendemmia si è sempre distinta per la larga partecipazione di adolescenti, era un rito di passaggio, partecipare alla vendemmia significava dare il proprio contributo di lavoro fisico. Si svolgeva spesso in un contesto familiare, a gratis, ma la musica cambiava e di molto, quando la vendemmia si faceva in una delle tante aziende agricole algheresi. Iscriversi alla camera di collocamento al lavoro a 16 anni e poi lavorare in mezzo ai lunghi filari di vite era un altro mondo, con la certezza di essere pagati. La data fatidica di inizio lavori era vivamente attesa, le grandi vigne a nord della città erano tutt’altro che vicine, impensabile andarci a piedi, ma nel passato si faceva. La gran parte dei vendemmiatori andava in pullman predisposti per l’occasione, di auto private neanche a parlarne, nessuno ne aveva. Ma anche tanti di questi prossimi braccianti agricoli preferivano andare in bicicletta, tutto sommato era più comodo, si fa per dire, niente pullman sovra carichi, caldi, polverosi e lenti e costosi. La bicicletta era il mezzo di trasporto ideale, per chi aveva buone gambe. Si partiva all’alba a Settembre, il sole doveva ancora sorgere, l’uso quotidiano della bici allenava le gambe il corpo la mente e quelle distanze non intimorivano. 

  Si percorreva la strada vicinale di Ungias per arrivare al ponte Serra, lasciando dietro la stazione di Mamuntanas tutta una volata, si costeggiava la zona di Tanca Farrà per entrare nel lungo viale, fra le vigne, che immette sulle piazzette fra gli edifici del nucleo dell’Azienda Vitivinicola Sella&Mosca. Tutto il percorso si sviluppava su strade vicinali con fondo ghiaioso, vietato cadere. Questo viale allora unico ingresso, nella sua semplicità era solenne, preparava alla visione di un impianto architettonico di pregio, oggi molto valorizzato e curato. Allora si presentava come un borgo di campagna, molto vissuto, le case abitate dalle famiglie con i lavoranti che erano dipendenti dell’azienda, la rivendita di sigarette “ l’astangu”, la grande officina meccanica per l’Assistenza Qualificata al grande numero di mezzi agricoli, una curata cappella per i riti religiosi, mancava il Bar, ma nessuno ne sentiva la mancanza, i vini erano sempre disponibili, di ottime qualità e a prezzi simbolici, per i dipendenti dell’azienda. Un lungo edificio basso, oggi adibito a enoteca e spazio espositivo, era allora usato come spogliatoio alla buona, magazzino per masserizie alla rinfusa e deposito per le centinaia di bacinelle numerate a pennello, da affidare ad ogni singolo vendemmiatore, da restituire alla fine della vendemmia, possibilmente intatte. Pena l’addebito. Questa sorta di immatricolazione, persona con caldarella dedicata, era talvolta motivo di sanguigne liti tra pretendenti della stessa: Questa è la mia…No ti sbagli, questa e la mia. Un crescendo di ludibrio “sfottò”e di ira funesta il torto ed il maltolto erano contagiosi, altre discussioni scoppiavano nel piazzale affollato. Un copione che si ripeteva ogni mattina. E intanto la giornata si scaldava, in tutti i sensi. A calmare gli animi, l’appello che facevano i capi squadra dipendenti a tempo indeterminato “i selariati fissi” così si chiamavano tra di loro con evidente orgoglio, che lasciata la zappa prendevano in mano una penna e con gran difficoltà segnavano la presenza del neo bracciante agricolo per quella giornata di lavoro. La lettura della lista dei cognomi era uno strazio, dizione incerta, troncata a metà, pronuncia pesantemente influenzata dal sardo e dall’algherese, il tutto tritato a voce alta, tutti dovevano sentire e rispondere presente facendosi vedere. E via nei filari a tagliare i grappoli di uva da depositare sulle bacinelle. Due persone, una per lato del filare, tagliavano i grappoli e le bacinelle si riempivano di uva da portare ai carrelli che aspettavano alla fine dei filari, le bacinelle si riempivano con una velocità impressionante, il portatore con buone gambe, portava l’uva al carrello. 

  Numerose squadre comprendevano anche ragazze che attiravano le attenzioni dei ragazzi, capitava così per “caso” che si sincronizzasse la portata al carrello e percorrere un tratto insieme e all’occorrenza aiutare la ragazza a svuotare la sua pesante bacinella nel carrello che non era mai basso. Poteva nascere così una piacevole amicizia, il tempo passava più in fretta e poi, non si sa mai, da cosa nasce cosa. I capi squadra alzavano la voce man mano che si alzava il sole, più il sole picchiava e più le grida di incitamento aumentavano di volume e frequenza. In quelle bocche spalancate potevi contare i denti e vedere quanti ne mancavano, verificare la salute dei molari, osservare le tonsille estroflesse e nel collo la vena giugulare gonfia, prossima allo scoppio.