La crisi abitativa che colpisce Alghero e la Sardegna non è un caso isolato. Situazioni simili si riscontrano in altre parti d’Italia e d’Europa, offrendo spunti di paragone e possibili lezioni.
In altre regioni italiane, soprattutto nel Sud, molti borghi stanno vivendo l’abbandono dei giovani e il calo demografico. Paesi dell’entroterra calabrese o siciliano si spopolano esattamente come quelli sardi, per le medesime ragioni: mancanza di lavoro e servizi. Non a caso, l’iniziativa delle case a 1 euro è nata anche in Sicilia e in altre regioni per provare a ripopolare i centri storici vuoti. Tuttavia, la peculiarità sarda è l’abbinamento di spopolamento interno e caro-casa nelle città turistiche costiere. In Sicilia, ad esempio, si spopolano le aree interne mentre città come Palermo o Catania mantengono canoni relativamente più bassi rispetto al Nord; in Sardegna invece città medio-piccole come Alghero o Olbia hanno costi da metropoli ricca senza averne i redditi medi.
Il caso Alghero ricorda in parte quello di Venezia – sebbene le dimensioni siano diverse – dove il turismo di massa ha reso le case inaccessibili ai residenti. Venezia città storica ha perso 22 mila abitanti in 20 anni (da 66mila nel 2000 a 49mila nel 2022), un esodo inesorabile. I veneziani raccontano che interi sestieri si sono trasformati in B&B, con affitti triplicati: un appartamento popolare che negli anni ‘90 costava l’equivalente di 500 € al mese oggi ne costa 1.500€. Molti residenti, strozzati dai costi, hanno dovuto trasferirsi in terraferma. Il turismo espelle i residenti, letteralmente.
E la stessa dinamica è avvertita ad Alghero: il centro storico catalano rischia di diventare una città-vetrina per visitatori, con poche famiglie rimaste a viverci stabilmente. Anche a Roma e Firenze i centri cittadini si stanno svuotando di abitanti (in parte colpa di Airbnb, ha rilevato uno studio universitario, che attribuisce agli affitti turistici il 70-90% dello spopolamento di alcune zone centrali). In Liguria, luoghi come le Cinque Terre o Portofino vedono uno scenario simile: i lavoratori stagionali del turismo devono fare il pendolare da lontano perché nei borghi vip non trovano casa a prezzi accessibili.
In Europa, il problema è ugualmente sentito. Barcellona negli ultimi anni ha affrontato proteste accese dei residenti contro il sovraturismo e la gentrificazione: giovani catalani costretti a lasciare quartieri storici come Barceloneta, affitti alle stelle e speculazione immobiliare. La risposta dell’amministrazione è stata drastica: stop agli affitti brevi turistici dal 2028.
Il Comune di Barcellona ha deciso di non rinnovare le oltre 10.000 licenze di appartamenti turistici, che verranno via via eliminate entro il 2028. In pratica gli Airbnb saranno messi al bando, per riportare quelle case sul mercato residenziale e frenare i prezzi. È una misura senza precedenti a livello mondiale, nata dalla convinzione che gli affitti brevi abbiano fatto impennare i prezzi al punto da costringere le famiglie locali a sloggiare dai propri quartieri. “La città è al limite, l’offerta di posti letto turistici non può crescere oltre”, ha dichiarato il sindaco di Barcellona, spiegando che l’obiettivo è far sì che “la classe media lavoratrice non debba lasciare la città perché non può permettersi un alloggio”. Questo esempio dimostra che soluzioni radicali sono possibili quando la volontà politica c’è.
Altre città europee si muovono nella stessa direzione: Amsterdam ha imposto limiti severi (max 30 giorni l’anno per affitti turistici di case intere); Berlino ha introdotto un tetto agli affitti e requisiti stringenti per affittare a turisti; Lisbona sta offrendo incentivi ai proprietari perché tornino ad affittare a residenti invece che a visitatori. Tutte misure per provare a invertire la tendenza e tutelare il diritto alla casa dei locali. Come ricorda un rapporto, molte città – da Barcellona ad Amsterdam, da Roma a Lisbona – sono “soffocate dal sovraffollamento turistico”, e ovunque cittadini, attivisti e amministratori stanno cercando di contrastare queste dinamiche. In alcuni casi si sperimentano anche soluzioni creative: a Napoli un gruppo di abitanti ha fondato un’agenzia immobiliare popolare per mettere in contatto diretto proprietari etici e inquilini affidabili a canoni equi; a Berlino associazioni di inquilini hanno persino promosso un referendum (poi risultato non vincolante) per espropriare grandi società immobiliari e socializzare migliaia di appartamenti sfitti.
Queste esperienze indicano che il problema della casa non ha una bacchetta magica, ma ci sono vie da esplorare. Limitare gli affitti brevi turistici, aumentare l’offerta di edilizia pubblica, calmierare i prezzi: sono azioni concrete messe in atto altrove che potrebbero ispirare interventi anche in Sardegna. C’è però da tenere conto delle specificità locali: in Sardegna il nodo casa si intreccia con quello del lavoro e dello spopolamento in modo unico. Non basta avere case più economiche, se poi in quei luoghi non c’è lavoro (vedi i paesi interni); e non serve creare lavoro stagionale, se poi gli stipendi non permettono di vivere dove si lavora (vedi le città turistiche costiere). L’inchiesta sulla crisi abitativa in Sardegna – con Alghero come esempio emblematico – rivela un intreccio di problemi strutturali: prezzi delle case inaccessibili, salari insufficienti, precarietà lavorativa cronica, spopolamento e un conseguente tessuto sociale indebolito. Le testimonianze e i dati raccolti dipingono la realtà quotidiana di migliaia di sardi: coppie che a 40 anni vivono ancora in una stanza dai suoceri, ragazzi qualificati costretti a lasciare la loro terra, famiglie monoreddito che a fine mese devono scegliere se pagare l’affitto o le bollette. Allo stesso tempo, nei centri storici delle città turistiche molte case restano luci spente per buona parte dell’anno – seconde case di proprietari non residenti o alloggi destinati ai vacanzieri – mentre i locali fanno fatica a trovare un tetto. È una situazione paradossale e dolorosa.
Di fronte a problemi così radicati, non esistono soluzioni facili o rapide. Gli interventi-tampone e gli slogan annunciati finora hanno prodotto effetti modesti. Servirebbe un piano organico che affronti insieme le diverse facce della crisi: politiche attive del lavoro per aumentare l’occupazione stabile e i redditi, investimenti in servizi e infrastrutture nelle zone interne per renderle vivibili, incentivi mirati (e vincolati) affinché le case sfitte tornino sul mercato a canoni accessibili, e magari una regolamentazione più equilibrata del turismo abitativo. Nulla di ciò darà frutti dall’oggi al domani, ma ignorare il problema lo farà solo aggravare.
Nel frattempo, i cittadini sardi continuano a lottare ogni giorno con queste difficoltà reali. C’è chi si organizza in comitati di quartiere, chi chiede un tavolo di confronto con le istituzioni, chi denuncia pubblicamente le storture (ad esempio gli affitti in nero ai turisti, o le graduatorie infinite per una casa popolare). Le storie di resistenza non mancano: giovani coppie che, nonostante tutto, comprano casa in Sardegna facendo sacrifici enormi; commercianti che assumono a tempo indeterminato andando controcorrente; intere comunità che si tassano per tenere aperta la scuola del paese evitando che chiuda. Sono segnali che la società civile non si arrende.