Una folla in delirio, luci accecanti, carrelli colmi di beni spesso inutili. È il Black Friday, il venerdì nero che segna l’apoteosi del consumismo globale, la liturgia di una società che misura la felicità in sconti e acquisti compulsivi.
Nata negli Stati Uniti come giornata di shopping post-Thanksgiving (festa del ringraziamento americano), questa festa dell’acquisto ha travalicato i confini, conquistando anche le province dell’impero americano, dove si consuma con fervore quasi religioso l’imitazione dei riti d’oltreoceano.
Le radici del Black Friday affondano nel cuore del capitalismo statunitense.
Negli anni ’50, i commercianti di Filadelfia iniziarono a usare l’espressione "Black Friday" per descrivere il caos generato dai consumatori che invadevano le strade il giorno dopo il Ringraziamento, attratti dalle prime offerte natalizie. Ma la consacrazione ufficiale avvenne negli anni ’80, quando la narrazione si adattò all’immagine dell’imprenditorialità americana: il nero sui registri contabili, simbolo di profitti, sostituì il rosso delle perdite. Da allora, il Black Friday è diventato il totem di un sistema economico che vive di eccessi e ciclicità, un ingranaggio che si autoalimenta, spinto dal marketing e da una narrativa costruita ad arte.
Poi, come spesso accade con le creazioni dell’impero, sono arrivate le leggende. Una di queste, diffusa soprattutto sui social, lega il nome del Black Friday al commercio degli schiavi afroamericani: si dice che i proprietari terrieri organizzassero svendite di schiavi il giorno dopo il Ringraziamento. Una storia potente e dolorosa, ma senza fondamento storico. Non c’è traccia di questa pratica nei documenti dell’epoca, eppure la leggenda persiste, forse perché incarna in maniera brutale il cinismo di un sistema che monetizza ogni cosa, anche la dignità umana.
Ma la vera storia del Black Friday non è quella dei miti. È la storia di come le province dell’impero americano – Europa inclusa – abbiano adottato, senza troppe domande, le usanze della madrepatria. In Italia, paese che vanta secoli di cultura e tradizioni, non c’è stato alcun Ringraziamento, nessuna celebrazione autunnale del raccolto. Eppure, anche qui il Black Friday è diventato un appuntamento fisso, un simbolo del nostro status di satelliti culturali ed economici.
Le vetrine si riempiono di scritte in inglese, gli influencer bombardano le bacheche con offerte "imperdibili", e gli italiani, da nord a sud, si riversano nei centri commerciali o su Amazon come un popolo in cerca di redenzione. Cosa racconta questo spettacolo? Che abbiamo accettato di vivere nell’opulenza di seconda mano, incapaci di sottrarci all’imitazione di un modello che non ci appartiene. La provincia dell’impero si abbandona al rito con maggiore devozione della capitale, dimenticando che i riti, per essere autentici, devono avere radici.
Eppure, l’ironia del Black Friday è che non celebra una potenza in ascesa, ma un impero in declino. Gli Stati Uniti, maestri del marketing globale, continuano a esportare il loro sogno consumista, anche mentre il mondo osserva con crescente distacco la fragilità del gigante americano. Il Black Friday è il canto del cigno di un modello economico che, nella sua ossessione per la crescita infinita, dimentica che le risorse del pianeta sono finite.
Nel frattempo, la provincia imita, mentre le insegne di catene multinazionali continuano a colonizzare i nostri spazi, con una risata sorda per chi ancora crede nella propria specificità culturale.
E così, in un venerdì di novembre, ci scopriamo tutti un po’ più americani, un po’ più vuoti, un po’ più prigionieri di carrelli virtuali e promozioni che ci spingono a comprare ciò che non serve, con soldi che non abbiamo, per impressionare persone che non ci interessano.
Quando avremo svuotato le tasche per riempire cassetti e scaffali, quando la frenesia del Black Friday si spegnerà in quel silenzio desolante che segue ogni eccesso, cosa resterà? Un carico di pacchi, certo. Ma anche una domanda che ci perseguita: a cosa serve tutto questo? E soprattutto, a chi? Se c’è un senso in questo rito annuale, è solo uno: ricordarci che la vera schiavitù del nostro tempo non si vende sui banchi delle offerte, ma si consuma nell’imitazione inconsapevole dell’impero.