Negli ultimi vent’anni, la vita delle famiglie e dei lavoratori italiani ha attraversato un percorso accidentato, segnato da crisi economiche, precarietà e, più di recente, dall’incubo della pandemia. Ciò che emerge è una parabola di speranze, disillusioni e adattamenti che ha lasciato segni profondi nella psiche collettiva, trasformando la visione del futuro, delle relazioni e perfino del concetto di “stabilità”.
I primi anni 2000 in Italia sembrano quasi lontani, con un clima di apparente sicurezza economica. Il “posto fisso” era ancora una realtà per molti, e la fiducia in un futuro prevedibile manteneva alta la coesione familiare e l’ottimismo. Certo, la globalizzazione e i primi segnali di incertezza economica si facevano già sentire, ma l’idea dominante era quella di una “normalità” solida, in cui il lavoro stabile poteva ancora essere dato per scontato.
Tuttavia, a livello psicologico, già si avvertiva una tensione sotterranea.
Le famiglie iniziavano a confrontarsi con una nuova precarietà dei prezzi, una più difficile gestione dei risparmi, e la consapevolezza che il futuro dei figli non era più una certezza. Erano tempi in cui si cominciava a parlare di “flessibilità”, ma senza ancora comprendere appieno quanto questo concetto avrebbe rivoluzionato (e in parte minato) le basi della vita familiare e lavorativa.
L’arrivo della crisi economica del 2008 ha sconvolto l’Italia come un terremoto. Per molte famiglie, è stato come svegliarsi da un sogno di stabilità e sicurezza per trovarsi in un incubo di licenziamenti, chiusure aziendali e aumento dei costi. L’effetto psicologico di questo scossone è stato profondo e duraturo. Per la prima volta, intere famiglie hanno dovuto fare i conti con la possibilità reale di perdere tutto ciò che avevano costruito.
Dal punto di vista emotivo, la crisi del 2008 ha creato una nuova mentalità: quella della “sopravvivenza economica”. Le famiglie italiane, soprattutto quelle delle classi medie, hanno iniziato a ridurre i consumi, a risparmiare con maggiore ansia, e a vivere in uno stato di perenne preoccupazione. La precarietà non era più un termine astratto, ma una condizione quotidiana. La generazione dei trentenni e quarantenni ha iniziato a sentire il peso della “sopravvivenza” come una condizione di vita: niente più sogni a lungo termine, niente più risparmi per le vacanze o per progetti futuri.
La priorità è diventata, per molti, arrivare a fine mese.
Negli anni successivi, il mercato del lavoro ha subito una trasformazione radicale. Contratti a termine, lavori intermittenti e “lavoretti” sono diventati la norma. La riforma del Jobs Act, introdotta nel 2015, ha cercato di dare respiro all’economia flessibile, ma ha anche sancito il concetto che un lavoro stabile, per molti, era ormai un’utopia.
La precarietà è diventata un fardello emotivo per chi, ogni giorno, si confronta con la possibilità di perdere il proprio impiego. Questo nuovo panorama ha avuto un impatto devastante sul benessere mentale dei lavoratori. La prospettiva di un futuro senza stabilità ha generato ansia, frustrazione e un profondo senso di insicurezza. Molti giovani adulti hanno dovuto posticipare, o addirittura rinunciare, a progetti di vita come l’acquisto di una casa o la costruzione di una famiglia.
L’Italia, storicamente legata alla tradizione del nucleo familiare e della proprietà, ha visto la nascita di una generazione di “precari permanenti”, con conseguenze psicologiche significative: isolamento, sfiducia verso il sistema e un senso di disillusione nei confronti delle istituzioni.
Poi, il 2020 ha portato un colpo ancora più duro: la pandemia di COVID-19. Improvvisamente, le famiglie italiane si sono trovate a vivere un isolamento forzato, a fare i conti con la paura di un nemico invisibile e con la perdita di interazioni sociali. Lo smart working, per quanto efficace per alcuni, ha generato una nuova forma di “stress da casa”, portando molti lavoratori a vivere senza più confini tra lavoro e vita privata. Questa commistione ha contribuito ad accrescere il senso di oppressione e di sovraccarico mentale, specie per le donne, spesso incaricate di gestire anche il carico familiare.
L’incertezza economica è diventata ancora più acuta, con migliaia di famiglie che si sono trovate in difficoltà per la riduzione degli stipendi o, peggio, la perdita del lavoro. Psicologicamente, la pandemia ha amplificato i sentimenti di ansia e depressione, generando un’“epidemia silenziosa” di disagio mentale. Per molte persone, la pandemia ha significato fare i conti con la propria solitudine, con il proprio stress e, soprattutto, con la fragilità delle proprie sicurezze.
Nel periodo post-pandemico, l’Italia si trova in una sorta di “nuova normalità” che però è tutto fuorché rassicurante. Le famiglie e i lavoratori vivono in un contesto di incertezza e precarietà costante, con un mercato del lavoro che offre poche certezze e un costo della vita in aumento. L’inflazione ha eroso il potere d’acquisto delle famiglie, rendendo sempre più difficile affrontare le spese quotidiane, e lo stress psicologico accumulato in questi anni ha lasciato cicatrici profonde.
Dal punto di vista psicologico, la situazione attuale è caratterizzata da una sensazione di “sospensione”. Molte famiglie si sentono bloccate in una sorta di limbo, incapaci di progettare il futuro e costrette a vivere alla giornata. Il supporto familiare, che un tempo rappresentava una solida ancora di salvezza, è stato messo alla prova dalla distanza e dall’isolamento generati dalla pandemia. Anche il legame sociale si è indebolito: la frammentazione delle comunità e il passaggio al lavoro remoto hanno accentuato un senso di individualismo e isolamento.
Oggi, la sfida per le famiglie italiane e i lavoratori è ripristinare una qualche forma di stabilità, anche solo psicologica, in un contesto che sembra spingere verso l’incertezza. La risposta a questa sfida potrebbe risiedere nella costruzione di una rete di supporto mentale e sociale più capillare. Investire nel benessere mentale delle persone, offrire supporto psicologico, incentivare politiche di lavoro che bilancino vita privata e professionale: questi sono solo alcuni degli strumenti che potrebbero ridare speranza.
Riuscire a restituire alle famiglie italiane il senso di appartenenza e di coesione che storicamente ha caratterizzato il nostro Paese è un compito arduo, ma necessario. Forse, la vera “stabilità” di cui abbiamo bisogno non è più quella economica, ma una stabilità di relazioni e valori, che permetta alle persone di riscoprire un senso di controllo e di resilienza davanti alle sfide del futuro.