Lavoro minorile: l'inganno di un'infanzia protetta o il primo passo verso la realtà?

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  Il lavoro minorile in Italia è diventato ufficialmente illegale nel 1967. La legge fu emanata per tutelare i minori, impedendo che venissero sfruttati in lavori fisicamente gravosi o in ambienti pericolosi. Il divieto riguardava tutti i bambini al di sotto dei 14 anni, obbligati a frequentare la scuola dell’obbligo. Questa decisione era parte di un ampio sforzo per proteggere la salute e il benessere dei minori, offrendo loro un’istruzione che, secondo i legislatori dell’epoca, li avrebbe preparati a una vita migliore. 

  Fino a quel momento, l'Italia – come molte altre nazioni – aveva visto i bambini impiegati nelle fabbriche, nei campi agricoli e nelle botteghe artigiane, contribuendo al sostentamento familiare a scapito della loro crescita educativa e fisica. Il contesto che portò alla fine del lavoro minorile non era solo una questione di diritti: si trattava anche di una spinta verso la modernizzazione economica e sociale del paese. Si riconosceva che i bambini, sacrificati al lavoro, stavano perdendo l'opportunità di diventare cittadini educati e capaci di contribuire a una società più equa. Il lavoro minorile non era solo una questione economica, ma anche culturale: in molte famiglie, soprattutto in quelle rurali, il lavoro del bambino era visto come parte integrante della vita quotidiana, una sorta di apprendistato informale che li preparava al mondo degli adulti.

  Ma la società stava cambiando, e con essa le aspettative sul futuro dei bambini. E se fosse stato meglio abituarli subito? Ma ora viene la domanda provocatoria: e se avessimo sbagliato tutto? Se invece di proteggerli da un futuro di sfruttamento, avessimo solo posticipato l’inevitabile? Non sarebbe stato più onesto far capire ai bambini fin da subito cosa li aspetta nella vita adulta? Perché nascondere la verità dietro l’illusione di un’infanzia felice, quando sappiamo tutti che la vita è fatta di frustrazioni, di compromessi e di sfruttamento? Negli anni 70', i bambini lavoravano ancora nelle campagne, accanto ai genitori. Nessuno parlava di sfruttamento perché era il lavoro della famiglia. Ma se il lavoro avviene fuori dalle mura domestiche, ecco che scatta il divieto.

  Eppure, non è forse meglio scoprire da subito che il mondo è un luogo dove chi ti guarda in culla oggi sarà il tuo futuro datore di lavoro, pronto a spremere ogni tua qualità, ogni tuo minuto di vita, fino a quando non sarai esausto? Non è meglio abituarli subito alla realtà piuttosto che lasciarli vivere nell’illusione di un mondo più giusto, di una vita che li proteggerà? Sembra una provocazione folle, ma pensateci bene: non è forse quello che accade oggi? Le leggi contro il lavoro minorile sono un bel paravento, ma alla fine non preparano i bambini a ciò che li attende. La vita è un ciclo inesorabile di sfruttamento, e noi, nel nostro tentativo di proteggerli, li lasciamo delusi quando scoprono che la vita non è affatto come gliel’abbiamo raccontata. Alla fine, ci raccontiamo che stiamo proteggendo i nostri figli vietando loro di lavorare. Ma a cosa li prepariamo veramente? A un mondo in cui saranno inghiottiti dal sistema, dove venderanno le loro energie al miglior offerente, sperando in una carriera che non li consumerà. 

  Forse, la vera crudeltà sta proprio nel far loro credere che la vita sarà diversa. Che senso ha proteggerli da una realtà inevitabile? La vita non è un sogno da cui svegliarsi dolcemente, ma un incubo quotidiano in cui le illusioni si infrangono. Se avessero scoperto fin da piccoli che il mondo è un luogo dove essere sfruttati è la norma, non sarebbero forse stati meno delusi?