Il governo procede spedito sul fronte immigrazione, determinato a fare chiarezza con il decreto legge sui “Paesi sicuri”. Ma proprio questa velocità, mirata a superare gli ostacoli dei decreti interministeriali, ha incontrato la prontezza di una risposta, se non politica, certamente di peso. È il tribunale di Bologna, infatti, che, su ricorso di un cittadino del Bangladesh, ha deciso di chiedere alla Corte di giustizia europea di intervenire, per stabilire se sia la normativa dell’Unione o quella nazionale a dover prevalere nella designazione dei “Paesi sicuri”.
Ma non si ferma qui: i giudici di Bologna non risparmiano paragoni pungenti, accostando il criterio di “sicurezza per la maggioranza” alla Germania nazista.
Perché questo? Perché il governo ha agito con urgenza per dare una risposta concreta a una questione che richiede pragmatismo, definendo criteri nazionali chiari che eliminano la possibilità di ritenere sicuro un Paese "solo in parte". L’esecutivo ha escluso Camerun, Colombia e Nigeria dall’elenco proprio per evitare le complicazioni introdotte dalla possibilità di designare un Paese come parzialmente sicuro, norma che avrebbe mandato in fumo, solo pochi giorni fa, il rimpatrio di 12 migranti verso l’Albania.
Eppure, mentre il governo tenta di disinnescare la questione, le toghe di Bologna decidono di “raddoppiare” puntando su un altro principio della direttiva Ue del 2013, quello che valuta i rischi per categorie specifiche – come nel caso della comunità LGBTQ+ in Bangladesh.
Per giustificare la propria posizione, fanno un salto nella Storia: richiamano la Germania sotto il nazismo e l’Italia sotto il fascismo, e con questo paragone, a dir poco esplosivo, insinuano che un Paese potrebbe sembrare sicuro alla maggioranza mentre perseguita minoranze.
Dietro questo rimpallo si cela, però, una questione che va oltre il merito giuridico. C’è una questione di sovranità e di capacità di autodeterminazione che il governo, sostenuto con forza da Fratelli d’Italia, rivendica. Decidere la sicurezza nazionale e come trattare le questioni migratorie è un dovere di chi governa, e ogni volta che un giudice si spinge oltre, si alimenta un conflitto di legittimità tra chi è chiamato a governare e chi si arroga il diritto di riscrivere decisioni politiche.
Se la questione non è nuova, la piega che sta prendendo è fin troppo familiare. Ci si chiede: di chi è la responsabilità di determinare le politiche migratorie e garantire la sicurezza dei confini? Fino a che punto può spingersi una sentenza prima di diventare essa stessa una dichiarazione di intenti politici?