L'ultimo saluto ad Andrea Capone: una maglia, un simbolo, una vita

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  Nella chiesa del Santissimo Crocifisso, quartiere di Genneruxi, il silenzio era quello di una partita persa, quella che non si voleva giocare. Eppure, come in ogni partita, c'era la folla, c'era l'attesa, e soprattutto c'era il dolore. Andrea Capone, 43 anni, il numero 10 che calcava il Sant'Elia con la passione di chi ha sempre vissuto per il calcio, ha lasciato il campo per l'ultima volta. Le circostanze della sua morte, un malore e una caduta in una stanza d'albergo, sembrano l'epilogo di un romanzo triste, uno di quelli che non si può raccontare senza sentire un nodo alla gola. Era lì, tra i banchi della chiesa, il Cagliari che fu e che ancora è. 

  David Suazo, amico prima che compagno di squadra, ha pianto come solo chi ha conosciuto la fratellanza del campo sa fare. È stato lui a depositare la maglia numero 10 sul feretro, un gesto che ha fatto scivolare le lacrime anche dai volti più duri, più temprati dalla vita e dalle battaglie sul prato verde. Non era solo, Suazo. C’erano Gianfranco Zola, il genio sardo che a Capone ha sempre riconosciuto quel qualcosa in più, quel lampo di luce che accendeva il gioco. E poi Gianluca Festa, l'inesauribile Pisano, il regista dalle mani sapienti Gianfranco Matteoli, Emiliano Melis, Marco Sau, Gigi Piras, e persino Mario Brugnera, il campione d’Italia. Tutti lì, a formare un'ideale squadra attorno a lui, ancora una volta. La folla, che gremiva la chiesa come se fosse l’ultima occasione per gridare "Forza Cagliari" sotto il cielo del Sant'Elia, si è stretta attorno a quel feretro coperto dalla maglia numero 10, quella che Capone aveva indossato con orgoglio nella sua ultima stagione in rossoblù. Sul balcone di un palazzo, una bandiera del Cagliari sventolava ininterrottamente, come a dire che un pezzo di storia non muore mai, resta in quella memoria collettiva che è il vero patrimonio di un popolo. C’erano i dirigenti del Cagliari, dal direttore sportivo Nereo Bonato, al segretario Matteo Stagno, al team manager Alessandro Steri. 

  Andrea Cossu, oggi nell’area scouting, era lì anche lui, con Bernardo Mereu, responsabile del settore giovanile. Due ragazzi di quel vivaio, che forse hanno sognato come Capone, sorreggevano il gonfalone del club. L’immagine era quella di una generazione che lascia il testimone alla prossima, come in una staffetta, come un passaggio di consegne che non si interrompe mai. Durante l’omelia, il parroco ha pronunciato parole semplici, ma piene di verità: “A ognuno di noi Dio ha dato un compito, e Andrea ha realizzato il suo sogno, quello di passare dal campo del Cep al Sant'Elia.” È una frase che risuona come l’essenza stessa di una vita vissuta all’inseguimento di un pallone, dalle prime corse nei campetti di periferia fino ai riflettori della Serie A. Capone ha fatto questo percorso, e lo ha fatto con la fierezza di chi non ha mai smesso di credere nel proprio sogno. Ma la storia di Andrea Capone non si chiude qui. La Procura di Cagliari ha aperto un fascicolo per omissione di soccorso, un atto dovuto, certo, ma anche un segnale che qualcuno, forse, avrebbe potuto fare qualcosa di più. L'autopsia sarà il prossimo passo, per capire se davvero si sarebbe potuta evitare una tragedia che lascia un vuoto incolmabile. Per ora, rimangono i ricordi, le lacrime e quel lungo applauso che ha accompagnato il feretro fuori dalla chiesa. Ecco, Capone, come ogni numero 10 che si rispetti, ha lasciato il campo tra gli applausi. Forse è l’unica consolazione in questa storia.